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In questo secondo romanzo che lo vede protagonista, Ras Tafari Diredawa e il fiore reciso, il barbone etiope viene chiamato a collaborare alla risoluzione di un delitto proprio dalla polizia: il maresciallo Cafoni, che Ras Tafari ha aiutato nel precedente omicidio, è alle prese con un altro fatto di sangue che come vittima ha una giovane hostess africana dell'Ethiopian Airlines. La ragazza ha lasciato un diario, scritto in parte in Amhara e in parte in Ge'ez, l'antica lingua parlata in Etiopia. Non aggiungiamo null'altro della trama, se non che l'indagine che coinvolge alti esponenti romani della FAO, l'organizzazione delle Nazione Unite, per Ras Tafari è una percorso angoscioso che lo riporta indietro nel passato, facendo riemergere quegli eventi tragici che aveva tentato di cancellare con l'alcolismo.
Cercare di sintetizzare una trama romanzesca è sempre un'operazione di sopraffazione operata con violenza sul testo e sui personaggi, che risultano inevitabilmente banalizzati, appiattiti e deprivati della loro ragione narrativa. Spesso, seppur a grandi linee, si riesce con molta approssimazione ad enucleare il plot di un libro. Ma non è questo il caso, perché anche la sola pretesa di raccontare la storia attorno alla quale sono costruiti i due volumi, è un atto che cancella il vero cuore dei romanzi, ossia una scrittura che si fa in continuazione paesaggio, ambientazione, storia di Roma. La suggestione che prende il lettore delle due avventure di Ras Tafari non è solo quella “classica” nei romanzi di genere, legata cioè al ritmo incalzante di un'indagine e all'ansia anticipatoria che, nelle narrazioni più riuscite, spinge il lettore a cercare di risolvere l'enigma prima dell'inevitabile disvelamento finale.
Qui il vero centro narrativo è l'abilità con cui l'autore, narrando un caso di detection, racconta la storia di un quartiere, la Garbatella, uno dei cuori della Roma popolare che continua a vivere sotto l'attuale immagine trendy e modaiola. Quella di Mongai non è un' amarcord, una nostalgica rievocazione del tempo che fu di un rione che deve il suo nome all'ostessa che nell'800 gestiva una trattoria di cacciatori, in cui si fermavano anche i pellegrini che facevano il Giro delle Sette Chiese, ed era tanto carina e gentile da essere chiamata, appunto, Garbatella. Il suo è un continuo calare il passato nel presente usando anche la suggestione delle fotografie, un ridescrivere il fascino del primo quartiere operaio creato a Roma nel 1920 e poi modificato durante il fascismo con un'architettura nuova (le “case rapide” e gli Alberghi suburbani per gli sfollati dal centro) pur nello stravolgimento dei locali e localetti di tendenza. Un ritrovare gli orti di guerra nei giardini dei lotti delle ex case popolari costruite nel ventennio. Un rievocare la vecchia zona industriale di capannoni nel luogo che ora ospita gli hot-spot più hot di Roma.
Certo le lucciole che brillavano nella campagna e sotto le case trasformandole in un luogo fatato non ci sono più, soppiantate da un ben altro tipo di “luccioloni alti e robusti”, i viados brasiliani… Ma la Garbatella sopporta tutte le nuove invasioni: “gente de fora, fighetti o coatti”, gli studenti di Roma Tre. Persino i turisti.
Racconta una Roma “altra” Mongai e lo fa inventando un canone tutto personale di giallo: guarda al romanzo realistico, si sarebbe detto in altri tempi, costruendo minuziosamente personaggi in possesso della caratteristica dei grandi romanzi realisti: la tipicità. Drammaticamente “tipica” è la straordinaria figura del protagonista, Ras Tafari, per la quale Mongai si è ispirato ad un Ahmed Ali Giama, profugo politico di origine etiope, ucciso all'inizio dell'estate 1977 vicino a Piazza Navona, al tempio della Pace. Molti ricorderanno quell'omicidio efferato: qualcuno gli aveva versato addosso della benzina e gli aveva dato fuoco. Due giovani furono accusati, processati e assolti per non aver commesso il fatto. Qualcuno parlò di malagiustizia.
Si potrebbe persino parlare di “giallo sociale” per le storie di Mongai, se non fosse davvero superfluo aggiungere un'altra alle tante etichette che circolano sul noir e dintorni. Basterà dire che sono romanzi riusciti.
(Pubblicato su “Queer”, supplemento di “Liberazione”, 16 dicembre 2007)
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Roma Noir 2007
Luoghi e nonluoghi nel romanzo nero contemporaneo
a cura di Elisabetta Mondello
(Robin Edizioni 2007)
Concorso Letterario
Roma Noir 2008
per tre racconti inediti
Vincitori
1° classificato
Il focolare
di
Davide Martirani
2° classificato
Vedo nero (Baby E.)
di
Andrea Floris
3° classificato ex aequo
La cosa nera
di
Roberto Santini
3° classificato ex aequo
La bellezza
di
Marco Bocci
Leggi i racconti
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Che cos'è Roma Noir?
Non è una nuova etichetta dell’ipermercato culturale contemporaneo. Né l’ennesimo slogan a effetto, in anni in cui tendenze e scritture vengono spesso definite a partire dai titoli delle antologie che lanciano i giovani esordienti.
Dal 2003 Roma Noir è un appuntamento annuale all’Università di Roma “La Sapienza”. Uno spazio che tenta di incrociare e di far dialogare due territori, quello di chi (scrittori, critici, case editrici, direttori di riviste) in questi anni ha “sdoganato” definitivamente il noir dal ghetto della letteratura di second’ordine con quello dell’Università, intesa nel senso delle sue componenti (studenti, docenti e, fisicamente, aule di un ateneo) ma soprattutto quale luogo di creazione/trasmissione di un’idea del mondo che, nel caso della letteratura, frequentemente si mantiene distante da alcuni ambiti della produzione e della lettura.
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