Vincitori del Concorso Letterario
Roma Noir 2011 - Ottava Edizione
Primo Classificato:
Manuel ride
di Ines Bianchedi
Manuel ride.
È una risata sgangherata, con un retrogusto disperato, c'è dentro un po' di tutto, l'alcol che ha in corpo, la sniffata di coca che ci siamo fatti in casa di Arrigo, la voglia di spaccar tutto perché Valentina l'ha mollato per mettersi con Marco.
E c'è anche l'incazzatura che si è preso perché suo padre gli ha detto che o si mette seriamente a studiare o lo manda a scaricare cassette ai mercati generali a calci nel culo, che lui mica si alza tutti i giorni, e tutti i sacrosanti giorni sale sul quel camion della raccolta rifiuti per mantenere uno che non ha voglia di fare un cazzo.
“Ma ti rendi conto, il vecchio stronzo…?” – dice Manuel, e si pulisce il naso con la manica del giubbotto jeans, col fiato che gli esce bianco dalla bocca per il freddo.
“Ma dai, che l'avrà detto così, tanto per dire…” – dico, guardando in alto, mentre incomincia a venire giù una pioggia sommessa ma penetrante e siamo senza ombrello, perché tra di noi portare l'ombrello quando piove è come mettersi al collo un cartello con su scritto “FROCIO”.
“Ma ti rendi conto?” – ripete Manuel, come se non avesse altro in testa e più lo dice più la rabbia gli sale.
“Dai, che ti frega.” – dico per calmarlo – “Andiamo a casa che è tardi, che domani dobbiamo andare a scuola e poi mi sta venendo da vomitare.”
“Vecchio stronzo!” – insiste Manuel e saltella sulle gambe come un boxeur, e tira un calcio a una lattina di birra che rotola, che si nasconde nel buio, che si lascia dietro un'eco di cosa vuota.
Camminiamo uno vicino all'altro. Ogni tanto Manuel si ferma, pesca dentro la sua rabbia, prende a calci tutto quello che incontra.
All'inizio non ce ne accorgiamo, non lo vediamo. Solo un berretto di lana rossa che spunta da una pila di cartoni e un paio di scarpe rozze, scalcagnate.
“Chi c'è lì sotto?” – dice Manuel.
Incomincia a togliere i cartoni uno dopo l'altro, a buttarli di qua e di là con gesti sempre più febbrili, malati d'impazienza, pieni dell'onda cattiva della coca.
Il vecchio, svegliato di soprassalto, sbatte le palpebre, cerca di mettersi a sedere. Manuel raccoglie da terra un ramo di platano e lo stuzzica come si fa con i vermi, che quando li tocchi si contorcono forsennati.
Anche il vecchio si contrae, impaurito. Manuel ride e si fa più insistente, più manesco via via che l'uomo appare indifeso.
“Piantala. Lascialo stare.” – dico con aria stanca.
“Perché?” – fa Manuel – “Questo vecchiaccio assomiglia a mio padre. Gente così non dovrebbe essercene al mondo. E nemmeno di stronzi come mio padre dovrebbero essercene al mondo, e nemmeno del tipo di Marco, che adesso, magari, mentre siamo qui con questo vecchio, in questa città merdosa, sotto questa pioggia del cazzo, si sta scopando Valentina.
“Dai… lascialo in pace, è un poveraccio.” – insisto.
Manuel prende a saltellare sulle gambe come fa quando giochiamo a calcetto e deve battere una punizione. Sferra al vecchio un colpo micidiale. Quello si accartoccia e mugola per il dolore che sembra un cane randagio.
“Cazzo fai?” – cerco di trattenere Manuel per una manica, ma lui continua a colpire.
Il vecchio si difende come può, si copre la testa col braccio, senza dire una parola.
“Lasciami…” – dice Manuel e mi dà uno spintone che mi fa cadere per terra.
“Piantala!” – grido – “Lascialo in pace! È solo un poveraccio.”
“Non scassarmi.” – reagisce rabbioso Manuel.
È a quel punto che si accorge della bottiglia di whisky. Ride cattivo, versa sul vecchio quello che c'è dentro. Prende nella tasca dei jeans l'accendino e gli dà fuoco.
Il vecchio si contorce, urla, gli occhi pieni di terrore e d'ombra. Dopo un po' non dice più niente, è un fagotto che brucia nella notte piovosa e la rischiara.
Quando l'aria intorno si riempie della puzza di carne bruciata non ce la faccio, mi metto a vomitare.
Manuel ride, mentre si apre la patta dei jeans e piscia sul vecchio.
Secondo Classificato:
Il buio e la notte
di
Emanuele Venditti
Devo uccidere il mio capo.
È un bastardo. Mentre scendo le scale del palazzone di via Tiburtina penso e ripenso. Mi avvolge il nero della notte. Quella notte incombente della periferia di Roma che mi fa sentire la ferita nella carne. Anche nel cervello. Nel piazzale funzionano solo due lampioni. Il paesaggio che ondeggia sotto l'alternanza di buio e luce è fatto di cemento e fabbriche. Punge l'umore di quelli che ci lavorano. Anche il mio. Soprattutto il mio. Voglio piangere.
Il bastardo mi ha detto che non diventerò responsabile. Ha scelto un'altra persona. Un cretino. Io lavoro anche la notte. Lavoro anche da casa. E quel cretino viene promosso. Prenderà l'auto aziendale mentre io ho una Fiesta con 150.000 chilometri che ogni sera mi fa penare per partire. Nel piazzale sono solo. Il cretino sarà già a festeggiare. Questa sera la mia unica fortuna è che non ci sono gli zingari che frugano nella spazzatura. Quando mi vedono, sembra che valutino se continuare a frugare o rapinarmi. Mi espongo a questi rischi uscendo tardi ogni sera. E un cretino viene promosso.
Voglio uccidere il mio capo.
Prima gli sbatto le mie dimissioni in faccia. Voglio vedere la sua espressione.
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Terzo Classificato:
La memoria delle mani
di Barbara Iuliano
Altro che carta, per raccontare questa storia servirebbe un video. Perché come fai a descrivere un gioco di cui non hai mai conosciuto il nome? Un passatempo che mi insegnò mia nonna millenni fa; un pezzo di spago da intrecciare a turno. Qualcosa che avrei profondamente dimenticato se mia madre non avesse provato a spiegarlo alla mia bambina. E così, quando anche credi di non ricordare niente, le mani si muovono senza incertezza. Hanno memoria.
Sembrerà strano che cominci così, ma ho le mie ragioni, sapete.
Quell'estate, nella casa di risposo, i vecchietti morivano più per la noia che per il caldo.
Ovvio che le famiglie cominciassero a lamentarsi. Perché quando investi un patrimonio per tenere i tuoi cari in una ‘casa albergo', come minimo ti aspetti che passino a miglior vita in un periodo di bassa stagione.
Eccoli dunque, i parenti affranti nel bel mezzo delle vacanze. Ed eccomi, Elly bassastagione, come mi chiamano i colleghi: la mia bambina, mia mamma ed io partiamo a settembre, tutti i santissimi anni. E andiamo in montagna.
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Vincitori del Concorso Letterario
Roma Noir 2010 - Settima Edizione
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